SUL DANNO NON PATRIMONIALE DERIVANTE DA FRASI INGIURIOSE

Alcune precisazioni sul danno non patrimoniale derivante da frasi ingiuriose

Corte di Cassazione, terza sezione civile, sentenza n. 1046 del 2019

Nel caso in questione, la ricorrente aveva adito la Corte di Cassazione in quanto la Corte d’Appello aveva accolto solo in parte il gravame da questa esperito nei confronti della sentenza del Tribunale di primo grado, confermando la condanna al risarcimento dell’originario attore per il danno non patrimoniale cagionatogli a causa di frasi ingiuriose rivolte nei suoi confronti al cospetto di terzi.

L’attore aveva convenuto innanzi al Tribunale di primo grado la sorella, in quanto lei lo avrebbe investito presso il suo studio legale, alla presenza di colleghi, collaboratori e di una cliente, di una serie di epiteti ingiuriosi, mettendogli inoltre le mani al collo nel tentativo di strangolarlo.

Nello specifico l’attore aveva richiesto non solo il risarcimento dei danni non patrimoniali ma anche patrimoniali, in quanto la cliente che aveva assistito la scena gli aveva revocato il mandato, cagionandogli un danno di diverse migliaia di euro.

In primo grado le doglianze attoree erano state accolte, riconoscendogli anche il danno patrimoniale lamentato.

La Corte d’Appello invece aveva parzialmente accolto l’appello presentato dalla donna, ritenendo che non fosse stata raggiunta la prova del nesso causale tra il contegno ascritto all’appellante ed il danno patrimoniale lamentato dall’originario attore, di revoca dell’incarico professionale.

Gli Ermellini, intervenuti sulla questione hanno precisato che:

“il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa“, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicchè la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima e ciò, oltretutto, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale”.

Ai principi sopra espressi si è attenuta la sentenza impugnata, la quale dopo aver ricordato che la giurisprudenza in passato aveva sostenuto che la prova del danno alla reputazione era “in re ipsa”, ha dichiarato di voler aderire all’orientamento più corretto che identifica il danno all’onore e alla reputazione in quel

“perturbamento psichico e sofferenza derivante dall’illecito che può in sostanza intendersi quale conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto”.

Al fine di ritenere provata la prova del danno “de quo”, la sentenza impugnata aveva fatto riferimento al tenore delle frasi ingiuriose pronunciate dalla sorella e dal fatto che fossero state pronunciate nello studio in cui esercitava la professione il fratello, valorizzando così la rilevanza dell’offesa ed il contesto sociale e professionale della persona offesa.

Il terzo motivo di ricorso merita invece accoglimento, in quanto con riferimento al danno non patrimoniale “da reato”, è stato ribadito che la:

“liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. “pura“, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicchè, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento”, pena, altrimenti, il “vizio di nullità per difetto di motivazione“, nonché quello “di violazione dell’art. 1226 cod. civ.

Nel caso di specie, la Corte territoriale nel confermare l’importo del risarcimento del danno fissato in primo grado aveva sottolineato la gravità del fatto, desunta solamente dall’avere l’odierna ricorrente “posto in essere l’aggressione presso lo studio ove il fratello esercita l’attività professionale“.

In tal modo, la Corte d’Appello aveva omesso di considerare il contesto familiare in cui erano sfociate tali espressioni offensive, che seppur non idoneo a giustificarle di sicuro le depotenziava notevolmente.

Per tale motivo gli Ermellini rideterminano in diminuzione il risarcimento del danno dovuto dalla sorella al fratello.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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