NO AL LICENZIAMENTO DI CHI PRATICA SPORT PUR ESSENDO DISPENSATO DA MANSIONI GRAVOSE

Non può essere licenziato chi pratica sport pur avendo ottenuto la dispensa da mansioni gravose, a meno che l’attività non aggravi la patologia del lavoratore

Il lavoratore che, in seguito ad un problema di salute, ottiene la dispensa dallo svolgimento di mansioni gravose non può essere licenziato per il solo fatto che, al di fuori dell’orario di lavoro, pratichi un’attività ludico-sportiva.

Con la sentenza n. 1374 del 19 gennaio 2018 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha ritenuto spropositata e, pertanto, illegittima, la scelta del datore di lavoro di licenziare un dipendente solamente per tale ragione.

Il caso

Un’azienda aveva intimato al lavoratore il licenziamento per avere egli giocato a tennis, sia pure al di fuori dell’orario lavorativo, in un periodo in cui aveva ottenuto dalla stessa società di essere adibito a mansioni meno gravose.

Con sentenza non definitiva n. 577/14 la Corte d’appello di Trieste, in totale riforma della sentenza di rigetto emessa in prime cure dal Tribunale di Gorizia, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare, ordinando la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro e rinviando al prosieguo del giudizio la quantificazione del risarcimento dovuto ex art. 18 legge n. 300 del 1970.

Detta quantificazione veniva poi effettuata con sentenza definitiva n. 191/15.

La Corte d’Appello stabiliva che erano state confermate la veridicità della patologia per cui il dipendente aveva chiesto ed ottenuto di essere adibito a mansioni meno gravose, e aveva ritenuto, altresì, l’incompatibilità di tale malattia con le mansioni di bilanciatore anteriormente svolte dal dipendente, che implicavano la movimentazione di carichi pesanti.

I giudici d’appello accertavano, inoltre, che non era emerso che il giocare a tennis avesse aggravato o fosse suscettibile di aggravare la malattia del lavoratore e che, ad ogni modo, anche laddove si fosse ravvisata un’ipotesi di responsabilità disciplinare, la sanzione irrogata sarebbe stata sproporzionata.

V. anche

Il ricorso per Cassazione

La società ricorre per la cassazione di entrambe le sentenze, affidandosi a tre motivi:

  1. violazione o falsa applicazione degli artt. 7 e 18 legge n. 300 del 1970, in riferimento agli artt. 3 legge n. 604 del 1966 e 2119 cod. civ., nonché violazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., nella parte in cui la Corte d’Appello non aveva considerato che con la contestazione disciplinare la società aveva inteso addebitare al lavoratore l’incompatibilità della patologia denunciata con l’attività sportiva da lui praticata, a prescindere dal rilievo se tale condizione patologica avesse o meno natura professionale;
  2. violazione o falsa applicazione degli artt. 2118, 2104 e 2105 cod. civ. in riferimento all’art. 3 legge n. 604 del 1966, degli artt. 2110 e 2119 cod. civ., 18 legge n. 300 del 1970, 2697 cod. civ. e 115 e 116 cod. civ., nonché omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio, per avere i giudici d’appello negato che il lavoratore dovesse comunicare all’azienda il miglioramento del proprio stato fisico (reso palese dal poter giocare a tennis) e per aver escluso che tale attività avesse creato le condizioni per aggravare la patologia del lavoratore; inoltre, la sentenza non ha tenuto conto della lettera in base alla quale il lavoratore si era impegnato a comunicare alla società un eventuale mutamento dello stato clinico tale da consentire una reintegra nelle originarie mansioni o in altre equivalenti;
  3. violazione o falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2118, 2104, 2015 cod. civ., in riferimento all’art. 3 legge n. 604 del 1966, e degli artt. 2119 cod. civ., 7 e 18 legge n. 300 del 1970 e dell’art. 10 c.c.n.l. per le aziende metalmeccaniche, là dove i giudici d’appello hanno ritenuto comunque sproporzionata la sanzione espulsiva irrogata al lavoratore.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha ritenuto il primo motivo infondato: il vizio di extrapetizione sussiste soltanto ove il giudice pronunci su domande od eccezioni non proposte e non anche quando – in ipotesi – malamente interpreti il senso e la rilevanza delle difese fatte valere dalle parti. Né si possono denunciare in sede di legittimità ipotetici travisamenti o mancate valutazioni di determinati elementi probatori od erronee interpretazioni dell’elaborato peritale (cfr. Cass. S.U. n. 8053/14). Né sussiste il denunciato vizio di omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio consistente nell’esistenza o meno del dovere del lavoratore di non peggiorare o comunque mettere a repentaglio – giocando a tennis – le proprie condizioni fisiche. Secondo la Suprema Corte

l’esistenza o meno d’un dato dovere all’interno d’un rapporto complesso come quello di lavoro costituisce non accertamento di fatto, ma valutazione di diritto”.

Il secondo motivo è infondato. Nel caso in esame risulta che l’attività ludico-sportiva (giocare a tennis) è stata svolta dal dipendente (al di fuori dell’orario di lavoro) in un periodo in cui non era assente per malattia, ma regolarmente in servizio. Inoltre, è stata esclusa la natura professionale della patologia de qua. I giudici precisano che

la Corte di merito non ha asserito che l’eventuale riassegnazione del lavoratore alle mansioni originarie di bilanciatore potesse influire negativamente sulle sue condizioni di salute, essendosi soltanto limitata a segnalare che la società, ove avesse dubitato della reale e attuale incompatibilità fra la malattia e le originarie mansioni del dipendente, ben avrebbe potuto riassegnargliele se egli vi fosse risultato idoneo all’esito di apposita visita medica”. Ad ogni modo, osservano i Giudici, “oggetto di lite non è l’accertamento del diritto della società ricorrente di riassegnare al proprio dipendente le originarie mansioni, ma soltanto la verifica della sussistenza, o non, della giusta causa dell’intimato licenziamento”.

Ancora,

all’esito degli accertamenti di merito non è emersa un’incompatibilità neppure potenziale fra l’attività ludico-sportiva e la dinamica dell’artropatia degenerativa vertebrale del lavoratore”.

Pertanto, gli Ermellini ritengono che correttamente i giudici d’appello hanno escluso la prova (del cui onere è gravato il datore di lavoro) di qualsivoglia ipotesi di responsabilità disciplinare.

Il terzo motivo è improcedibile nella parte in cui denuncia una violazione di c.c.n.l. senza però depositarne il testo integrale, ma solo un estratto. Invero, per costante giurisprudenza (cfr., ex plurimis Cass. n. 4350/15; Cass. n. 2143/2011; Cass. 15.10.10 n. 21358; Cass. S.U. 23.9.10 n. 20075; Cass. 13.5.10 n. 11614), nel giudizio di cassazione l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, dall’art. 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. – è soddisfatto solo con la produzione del testo integrale della fonte convenzionale. Tale motivo è poi, per altro verso, irrilevante perché, una volta assodato che il dipendente non è responsabile di alcun illecito disciplinare, viene superato ogni potenziale discorso in tema di sproporzione della sanzione irrogatagli, che i giudici d’appello avevano speso come mera motivazione alternativa.

In conclusione

Nel caso sottoposto all’esame dei giudici della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, all’esito degli accertamenti di merito era emersa la totale assenza di dati che consentissero di individuare e quantificare un pregiudizio effettivo o potenziale alle condizioni di salute del dipendente connesso alla pratica del tennis.

In mancanza di qualsivoglia incompatibilità dello sport con la patologia lamentata dal dipendente, i giudici hanno, pertanto, ritenuto esclusa la prova di qualsivoglia responsabilità disciplinare dell’uomo, confermando così la decisione della Corte d’appello di dichiarare illegittimo il licenziamento comminato al dipendente dal proprio datore di lavoro.

Avv. Silvia Zazzarini

Dott.ssa Benedetta Cacace


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