LEGGE PINTO ED IL PIGNORAMENTO DELLE SOMME SPETTANTI

SOMME PIGNORABILI CON RISARCIMENTO LEGGE PINTO

 

Con la L. 89 del 24 marzo 2001, c.d. “legge Pinto”, è stato stabilito il diritto all’equa riparazione in caso la durata del processo valichi un “termine ragionevole”.

Ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955 n. 848, ciascuno ha diritto ad un processo equo, pubblico e che duri un lasso di tempo “accettabile”.

E’ stata la legge costituzionale del 23 novembre 1999 n. 2 ad introdurre l’art. 111 della Costituzione ai sensi del quale:

La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.

L’Italia nel tempo è stata bersaglio di molti ammonimenti a causa della durata del processo e, in risposta, il Governo italiano, ha introdotto diverse riforme per accelerare i tempi processuali tra cui l’indicata l. 89/2001 (c.d. Legge Pinto), poi novellata dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, e dalla l. 28 dicembre 2015 n. 208 (legge di stabilità 2016).

La competenza a decidere sui ricorsi in materia di equo indennizzo, spetta alla Corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del giudizio.

Con riferimento ai tempi processuali, essi si intendono rispettati se non viene ecceduto il tempo di tre anni per il primo grado; due anni per il secondo grado; un anno nei giudizio di legittimità; tre anni per il procedimento di esecuzione forzata; sei anni per la  procedura concorsuale e sei anni per definite il giudizio in modo irrevocabile.

Ai sensi dell’art. 35 della Convenzione della Corte d’appello dei diritto dell’uomo, si può ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo – laddove sussista una violazione dell’art. 6 attinente la ragionevole durata del processo – nel termine di quattro mesi dalla data della decisione nazionale definitiva e comunque solo esaurite i gradi di ricorso ex lege n. 89/2001.

Il privato può soddisfarsi verso la pubblica amministrazione, solamente con in pignoramento contabile.

In materia illuminate risulta la sentenza della III sezione della Cassazione civile del 05/12/2022, n.35677 per cui:

Nell’ambito dell’azione esecutiva per ottener le somme riconosciute per eccessiva durata del processo è imposto il pignoramento mobiliare ed è esclusa la legittimità di un pignoramento di crediti o presso terzi, nemmeno presso sé stessi.”

In particolare nella vicenda sottesa alla pronuncia in esame, accadeva che il ricorrente impugnava un ordinanza con la quale il Giudice dell’esecuzione aveva dichiarato l’estinzione della procedura di pignoramento presso terzi attivata per un credito ex legge Pinto.

L’intervento del creditore nell’espropriazione presso terzi, risultava in contrasto con l’art. 6 co. 6 del d.l. 35/2013 n. 64, che aveva modificato la disciplina delle esecuzioni mobiliari verso le pubbliche amministrazioni.

L’uomo contestava che il proprio diritto era stato illegittimamente limitato, giacché l’esito positivo del pignoramento contabile attivato dipendeva dal fatto che l’amministrazione avesse previsto in bilancio dei fondi pignorabili a disposizione dei creditori per la soddisfazione dei crediti ex legge Pinto ma il Tribunale rigettava l’opposizione e così l’uomo proponeva ricorso adducendo la violazione dell’art. 12 delle preleggi; l’erronea applicazione dell’art. 5 l. 89/2001; la violazione degli artt. 112 e 99 c.p.c. e dell’art. 2907 c.c. e 5 sexies l. 89/2001; la violazione dell’art. 12 delle preleggi e 5 quinquies l. 89/2001 e la violazione dell’art. 5 quinquies l. 89/2001; art. 2740 c.c., 1 co. 294 bis l. 266 del 23.12.2005 come modificato dall’art. 1 co. 24 l. 228 del 24.12.2012 e 12 e 14 delle preleggi.

La Suprema Corte quindi rigettava il ricorso ritenendo i motivi infondati, chiarendo che fosse evidente che il pignoramento presso terzi in contestazione fosse stato effettuato dal ricorrente presso sé e che quindi fosse soggetto all’applicazione dell’art. 5 quinquies della L. n. 89 del 2001, nella formulazione risultante a seguito dell’entrata in vigore del D.L. 8 aprile 2013, n. 35, art. 6, comma 6, convertito in L. 6 giugno 2013, n. 64 (e, dunque, dal 9 aprile 2013).

Dunque correttamente il Tribunale di Roma aveva affermato che l’effettuazione del pignoramento nelle forme presso terzi fosse preclusa al creditore, giacché il richiamato art. 5 quinquies ha introdotto una fattispecie di nullità, rilevabile, come espressamente sancito, d’ufficio.

Nel caso di specie si applicava la normativa richiamata, perché l’atto di pignoramento era stato notificato successivamente all’entrata in vigore del D.L. n. 35 del 2013, convertito in L. 6 giugno 2013, n. 64, ossia dopo il 9/04/2013.

Ricordava anche la Suprema Corte che la Consulta sin dalla sentenza n. 350 del 9/10/1998 aveva già ritenuto che

non è fondata, con riferimento agli artt. 3,24,25,28 e 113 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, D.L. 25 maggio 1994, n. 313 (Disciplina dei pignoramenti sulle contabilità speciali delle prefetture, delle direzioni di amministrazione delle Forze armate e della Guardia di finanza), conv., con modificazioni, nella L. 22 luglio 1994, n. 460 – il quale non ammette atti di sequestro o di pignoramento sui fondi delle contabilità speciali delle prefetture presso le sezioni di tesoreria dello Stato – in quanto la disciplina stabilita per i pignoramenti sulle contabilità speciali non configura una procedura tale da determinare l’impignorabilità dei fondi assegnati alle prefetture, ma tende invece ad adeguare la procedura di esecuzione forzata alle particolari modalità di gestione contabile dei fondi stessi ed alla impignorabilità di quella parte di essi che risulti già destinata a servizi qualificati dalla legge come essenziali.”.

Dunque il Collegio, in conclusione, rigettava il ricorso.

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Cassazione civile sez. III, 05.12.2022, (ud. 09.11.2022, dep. 05.12.2022), n.35677