IL DATORE DI LAVORE DEVE RISARCIRE I DANNI NON PATRIMONIALI SE DERIDE IL SUO DIPENDENTE

Dirigente deriso dal proprio datore di lavoro? Sì al risarcimento danni

Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza a n. 4815 del 2019

La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 4815 del 2019, ha chiarito che il datore di lavoro che offenda continuamente un dipendente per la sua presunta omosessualità è tenuto a risarcire il danno non patrimoniale ad esso causato.

Nel caso di specie, sia in primo che in secondo grado i giudici avevano accolto le doglianze attoree, condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal dirigente a causa della condotta vessatoria posta in essere dal legale rappresentante della società.

Il danno si sarebbe verificato in quanto il datore di lavoro avrebbe ripetutamente offeso il dirigente per la sua presunta omosessualità chiamandolo “finocchio”, causando in questo uno stato di ansia ed un pregiudizio alla vita di relazione/professionale. A nulla rilevano le doglianze del ricorrente che riteneva trattarsi di un mero atteggiamento goliardico.

La Corte d’Appello aveva precisato che il danno era stato provato dal dirigente attraverso presunzioni, ed era congruo il criterio di liquidazione adottato dal giudice di primo grado.

Gli Ermellini intervenuti per dirimere la questione hanno dichiarato infondato il motivo di ricorso proposto dalla società datrice di lavoro in quanto di fatto con il motivo di ricorso la società ha criticato la sentenza di secondo grado per non aver percepito il carattere scherzoso degli epiteti con cui il legale rappresentante della società era solito apostrofare il dirigente, in presenza anche di altri dipendenti e in un clima cameratesco, e per aver letto la mancata reazione del lavoratore a tali episodi come sopportazione di un’offesa anziché come riflesso dell’irrilevanza dell’offensività della condotta.

Come precisato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8053 del 2014:

“per effetto della novella, il sindacato di legittimità sulla motivazione deve intendersi limitato al minimo costituzionale, con la conseguenza che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di qualsiasi rilievo del difetto di “sufficienza“, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili“, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile“, laddove nel caso di specie è chiaramente percepibile il percorso motivazionale adottato dal giudice d’appello”.

Inoltre secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 27325/2017 e 9749/2016:

“l’omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo. Non solo quindi la censura non può investire argomenti o profili giuridici, ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche l’omesso esame di determinati elementi probatori, il che rende inammissibili tutti i rilievi che attengono, in sostanza, alla critica nella ricostruzione del fatto come eseguita dalla Corte di merito attraverso la valutazione del materiale probatorio raccolto”.

La Corte di Cassazione ha diverse volte statuito come il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi “in re ipsa”, ma deve essere allegato e provato da chi lo invoca, anche tramite il ricorso a presunzioni semplici.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 26972 del 2008 hanno precisato che il danno non patrimoniale

“derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile anche quando non sussiste un fatto-reato, nèricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità”.

Nel caso di specie, la Corte di merito aveva desunto il danno non patrimoniale subito dal dirigente dagli elementi probatori raccolti sul contenuto delle offese, sulla reiterazione e sulle modalità con cui venivano perpetrate, pertanto le offese avevano arrecato al dirigente un

“concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, per il fatto che gli epiteti spregiativi erano ripetuti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle quali il destinatario non era in condizioni di reagire”.

La sentenza d’appello si era conformate adeguatamente alla giurisprudenza di legittimità che reputa veicolato dall’art. 2087 c.c. l’obbligo di tutela, nel contratto di lavoro, di interessi non patrimoniali presidiati da diritti inviolabili della persona.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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