SULLE CONDIZIONI DETENTIVE DISUMANE

Misure alternative alla detenzione e richiesta del risarcimento per le condizioni detentive disumane

Corte di Cassazione, prima sezione penale, sentenza n. 6310 del 2019

Nel caso di specie, un ex detenuto, ora agli arresti domiciliari aveva proposto reclamo al fine di ottenere il risarcimento dei danni per le condizioni della detenzione. Il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile tale richiesta in quanto il proponente non era più detenuto ma si trovava in regime di misura alternativa.

Nel ricorrere in Cassazione il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 35 ter ord. pen. richiamando l’ordinamento secondo il quale il rimedio risarcitorio in forma specifica può essere esperito anche nel caso in cui il soggetto sia sottoposto a detenzione domiciliare.

Gli Ermellini intervenuti sulla questione hanno dichiarato fondato il ricorso.

La questione posta dal ricorso riguarda la legittimazione del detenuto in regime di detenzione domiciliare a proporre la richiesta di risarcimento per le modalità inumane della detenzione, ex art. 35 ter ord. pen.

L’art.35 ter dell’ordinamento penitenziario dispone che:

“Quando il pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, lett.b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio. […]”

Il Magistrato di sorveglianza aveva pronunciato l’inammissibilità del reclamo con decreto, ex art. 666 c.p.p., secondo comma. Anche per quanto riguarda i reclami disciplinati dall’ordinamento penitenziario, la sussistenza dei requisiti di legge deve essere verificata in base alla data di proposizione del reclamo.

La questione che si deve esaminare discende dal fatto che l’istituto del rimedio risarcitorio per le modalità inumane della detenzione, introdotto dalla L. n. 117 del 2014 prevede per chi è detenuto, una riduzione di pena di un giorno per ogni dieci giorni di trattamento inumano e, nel caso in cui il residuo di pena da scontare non lo permetta, è previsto un indennizzo nella misura di € 8 per ogni giorno di detenzione inumana. Invece per chi non si trova più in stato di detenzione è previsto solamente un indennizzo monetario.

Nel primo caso è competente il magistrato di sorveglianza, mentre nel secondo caso il Tribunale civile.

Per tali ragioni si è posta la questione se il soggetto che si trovi a scontare la pena ai domiciliari sia legittimato ad agire per il rimedio compensativo, di competenza del magistrato di sorveglianza, ovvero solo per ottenere l’indennizzo monetario, di competenza del Tribunale civile.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale il rimedio compensativo sarebbe riservato solamente al soggetto detenuto in carcere al momento della proposizione della domanda. Invece secondo altro orientamento sarebbe legittimato a chiedere il risarcimento in forma specifica anche il soggetto in detenzione domiciliare.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento ha aderito all’orientamento più recente ritenendo che le misure alternative alla detenzione costituiscono una modalità di esecuzione della pena detentiva e pertanto è irragionevole e lesivo del principio di eguaglianza, riservare solamente a chi si trovi detenuto in carcere la possibilità di ottenere il rimedio compensativo.

Gli Ermellini per tale motivo affermano il seguente principio di diritto:

“Il detenuto in regime di detenzione domiciliare al momento della proposizione del reclamo è legittimato a chiedere il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. pen., comma 1”.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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