SULLA LITE TEMERARIA

La Corte di Cassazione, terza sezione civile, con la sentenza n. 15209 del 12 giugno 2018 pubblica un’ interessante pronuncia in tema di lite temeraria

L’occasione per la pronuncia in commento viene fornita da un ricorso per Cassazione nel quale le prime due censure in esso contenute, mosse dal ricorrente, venivano valutate dalla Corte come inammissibili per violazione del principio di autosufficienza e la terza manifestamente infondata.

L’art 96 c.p.c disciplina la “Responsabilità aggravata” e dispone che

“Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza [disp. att. 152].
Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.
In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.”

La Corte di Cassazione  ha affrontato più volte la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria di cui all’art. 96 c.p.c., comma 3, in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell’abuso del processo sia alla evoluzione della fattispecie dei “danni punitivi” che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento.
Con la sentenza della Corte di Cassazione n. 27623/2017, è stato affermato che

“la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente”

V. anche

Già prima a riguardo si erano pronunciate le SS.UU. con la sentenza n. 16601/2017, affermando che

“nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei “risarcimenti punitivi””

Gli Ermellini precisano che

“l’art. 96 u.co cpc è stato inserito nell’elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza.
In relazione a ciò, va ribadito, a mero titolo esemplificativo, che ai fini della condanna ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. può costituire abuso del diritto all’impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 n° 5 cpc, ove sia applicabile, ratione temporis, l’art. 348ter u.co cpc che ne esclude la invocabilità.
In tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.”

V. anche

Nella pronuncia in commento, in relazione al caso specifico, si evidenzia che  le prime due censure contenute nel ricorso sono inammissibili per violazione del principio di autosufficienza e la terza manifestamente infondata, ragion per la quale si devono ritenere gravemente erronee e non compatibili con un quadro ordinamentale che se deve garantire l’accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti ( cfr. art. 6 CEDU ), deve tener anche conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo ( art. 111 Cost. ) e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigato rie.

Concluedendo, quindi che

“in tale contesto questa Corte intende valorizzare la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario (Cass. n. 10177 del 2015), proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione (cfr Cass. SSUU. 12310/2015 in motivazione) e consentire l’accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.
Deve pertanto concludersi per la condanna del ricorrente, d’ufficio, al pagamento in favore della controparte, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata, in termini di proporzionalità, in euro 3000,00.”

Avv. Tania Busetto


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