PER IL DANNO PARENTALE NULLA RILEVA CHE LA VITTIMA ED IL SUPERSTITE CONVIVESSERO

Danno parentale e residenza del danneggiato

Cassazione Civile, sez. VI-3, ordinanza n. 3767 del 15 febbraio 2018

Nel caso di specie un uomo aveva perso la vita in seguito ad un incidente stradale; per tale motivo, la moglie, i figli ed i suoi genitori avevano convenuto innanzi al Tribunale la compagnia assicurativa di colui che aveva cagionato il sinistro al fine di farsi liquidare i danni subiti.

Il Tribunale aveva respinto le loro doglianze, mentre la Corte d’Appello aveva accolto solamente in parte il gravame.

Gli Ermellini, intervenuti sulla questione, nell’accogliere il ricorso hanno rammentato che:

“La realtà socioeconomica nella quale vive la vittima di un fatto illecito è del tutto irrilevante ai fini della liquidazione del danno aquiliano”.

Nella stima di ogni danno non patrimoniale deve tenersi conto delle conseguenze dell’illecito, come previsto dall’art. 1223 c.c.; e le conseguenze risarcibili dell’illecito consistono nei pregiudizi che la vittima, in assenza del fatto illecito, avrebbe evitato.

Detti pregiudizi devono essere stimati secondo la natura e la consistenza dell’interesse che li sottende.

I ricorrenti inoltre lamentano il fatto che la Corte d’Appello nel rigettare la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale presentata dalla madre e dai fratelli della vittima, avrebbe violato l’art.2043, 2059, 2727 c.c.; 115 e 116 c.p.c.

Nello specifico i giudici di secondo grado avevano ritenuto che l’uomo essendosi trasferito all’esterno da oramai diverso tempo non era più solito intrattenere rapporti stretti con i parenti; così facendo la Corte aveva addossato alla madre e ai fratello l’onere di provare di aver sofferto per la morte del congiunto.

Tale interpretazione non è conforme a diritto, infatti è vero che spetta alla vittima di un fatto illecito provare i fatti costitutivi della sua pretesa ma tale prova può essere fornita anche tramite presunzioni semplici.

Nel caso della morte di un congiunto prossimo, l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite.

Quindi, nel nostro caso non spettava affatto alla madre e ai fratelli della vittima dimostrare di avere sofferto per la sua morte.

Gli Ermellini hanno enunciato il seguente principio di diritto:

“L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti. Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo”.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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