OPERATIVITA’ DEL PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM IN MATERIA PENALE

Come opera il principio del ne bis in idem?

Corte di Cassazione, quinta sezione penale, sentenza n. 40153 del 2018

Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva confermato da decisione del giudice dell’udienza preliminare che aveva affermato la responsabilità penale dell’imputato in riferimento ai delitti di violenza privata, lesioni aggravate e atti persecutori in danno della vittima.

Avverso tale decisione l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione, la quale lo ha ritenuto fondato; vediamo il perché.

È di particolare rilievo la questione posta dal ricorrente con il secondo motivo di ricorso, in riferimento all’incidenza del principio del ne bis in idem sulla complessiva valutazione dei fatti oggetti di imputazione, consumati in un considerevole lasso di temo, e dei quali la difesa aveva parzialmente dedotto l’improcedibilità per essere stati oggetto di separate vicende processuali.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34655 del 2005 hanno sancito il seguente principio di diritto:

“Non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente, anche se in fase o grado diversi, nella stesse sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del pubblico ministero, di talché nel procedimento eventualmente duplicato deve essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, deve essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità”.

Pertanto, se un fatto costituisce materia di esercizio dell’azione penale nell’ambito di un procedimento, lo stesso ufficio del pubblico ministero non può, nella stessa sede giudiziaria, procedere nuovamente per la medesima fattispecie, iscrivendo un nuovo procedimento avverso lo stesso soggetto.

Nel caso di specie per ulteriori episodi, pure oggetto di contestazione, si era proceduto separatamente ad iniziativa del medesimo ufficio del pubblico ministero. L’operatività del ne bis in idem preclude di valutare anche condotte già devolute alla cognizione di altro giudice.

Tale principio fa sì che:

“I fatti che non possono essere contestati non possono neppure essere valorizzati come elemento integrante la nuova condotta. Possono essere, soltanto, valutati come antecedente storico-giuridico, come accade quando si valorizza un reato definitivamente accertato, secondo il disposto e con le modalità dell’art. 238 bis c.p.p.”.

Secondo costante giurisprudenza di legittimità anche i fatti di molestie o minacce accertati alla data di entrata in vigore della Legge n. 38 del 2009, che ha introdotto il reato di atti persecutori, pur non essendo addebitabili a tale titolo di reato, possono in ogni caso dispiegare valenza dimostrativa ai fini della lettura e dell’interpretazione soprattutto della gravità di altri fatti di molestia o minacce ricadenti nell’alveo applicativo della norma incriminatrice sopravvenuta, autonomamente suscettibili, per la loro reiterazione, di integrare il reato in parola.

Dott.ssa Benedetta Cacace


VUOI RIMANERE SEMPRE AGGIORNATO? ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER