NON E’ PUNIBILE L’IMPRENDITORE CHE HA PREFERITO PAGARE I DIPENDENTI E NON LE RITENUTE

Non è punibile l’imprenditore che ha preferito pagare gli stipendi dei dipendenti anziché versare le ritenute

Con la sentenza n. 6737/2018 della Sezione Terza Penale, depositata il 12 febbraio, la Corte di Cassazione ha stabilito che, in tema di omesso versamento di ritenute fiscali, non può essere ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato per l’agente che, a fronte di una crisi di liquidità, abbia consapevolmente scelto di far fronte agli adempimenti verso i lavoratori dipendenti, tutelati dalla Costituzione.

 Il caso

Con la sentenza del 31 gennaio 2017, la Corte d’Appello di Brescia ha deciso sull’impugnazione proposta avverso la sentenza del 23 giugno 2015 con cui il gip del Tribunale di Bergamo aveva condannato l’imputata alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 10 bis d.lgs. 74/2000, per avere omesso, quale legale rappresentante della società, di versare le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti, entro il termine per presentare la dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, per un totale di € 873.371,95.

In parziale riforma, il giudice d’appello ha ridotto la pena a un anno di reclusione e revocato la sospensione condizionale della pena.

La decisione della Cassazione

Il difensore ha presentato ricorso per Cassazione, sulla base di due motivi.

Con il primo motivo di ricorso è stata denunciata, in riferimento all’articolo 606, primo comma, lettere b) c.p.p., la violazione dell’articolo 10 bis d.lgs. 74/2000 e la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità motivazionale, per l’assenza di accertamento sull’effettivo rilascio delle certificazioni di ritenute fiscali ai sostituiti per il periodo 2009, per cui la corte territoriale aveva disposto l’acquisizione delle certificazioni suddette.

La sentenza avrebbe poi fornito considerazioni manifestamente erronee sugli esiti della rinnovazione istruttoria, e ciò alla luce del contenuto delle annotazioni della Guardia di Finanza da cui risulterebbero erogati redditi a favore di 247 persone, di cui 214 dipendenti e assimilati, nonché 33 lavoratori autonomi, la corte si sarebbe limitata a rilevare che erano state allegate 214 copie dei CUD dei dipendenti senza considerare la mancata acquisizione di 33 certificazioni di ritenute relative a redditi di lavoro autonomo e di provvigioni, che avrebbero dovuto essere detratte dall’importo complessivo di € 873.371,95; come le ritenute per 16 percettori di redditi di lavoro dipendente per cui le certificazioni non erano state rilasciate dal sostituto d’imposta.

Pertanto, il trattamento sanzionatorio avrebbe potuto essere ridimensionato.

Tale motivo è ritenuto inammissibile per la Corte, in quanto richiede una verifica sugli esiti fattuali dell’acquisizione disposta ai sensi dell’articolo 603 c.p.p. dal giudice d’appello.

Il secondo motivo denuncia, ex articolo 606, primo comma, lettera b), c.p.p., la violazione degli articoli 10 bis d.lgs. 74/2000, 45 e 54 c.p. per errore di diritto del giudice d’appello per aver escluso che potesse mancare nel caso in esame l’elemento soggettivo necessario ad integrare la fattispecie dell’articolo 10 bis, sia sotto il profilo del non avere potuto l’imputata accantonare mensilmente gli importi delle ritenute dovute per il periodo di imposta 2009, essendo ella divenuta amministratrice il 25 febbraio 2010, sia perché, in sostanza, non poteva non incidere la crisi di liquidità in cui la stessa, divenuta amministratrice, aveva trovato la società, in quanto sarebbe incostituzionale ritenere punibile l’imprenditore che omette il versamento delle ritenute fiscali, a causa di una crisi finanziaria e per far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione, con particolare riferimento al diritto al lavoro e alla conseguente retribuzione.

Nel caso in esame, quindi, mancherebbe l’elemento soggettivo e comunque l’antigiuridicità per impossibilità di diversa condotta, nell’omissione compiuta dall’imputata, per indisponibilità della somma necessaria, quale causa di forza maggiore, o comunque causa di stato di necessità, in considerazione della necessità di assicurare ai dipendenti e alle loro famiglie la prosecuzione dell’attività lavorativa e il loro sostentamento, che effettivamente è stato garantito sino alla dichiarazione di fallimento richiesta in proprio.

Secondo la ricorrente, la corte territoriale avrebbe dovuto assolvere l’imputata per carenza di elemento soggettivo, considerato altresì che la stessa non aveva alcuna disponibilità di patrimonio personale per adempiere all’obbligo tributario della società.

La corte territoriale non aveva ritenuto configurabile la mancanza di dolo dell’imputata, limitandosi ad una generica invocazione della costante giurisprudenza di legittimità sul punto, che esclude la responsabilità dell’imprenditore solo in presenza di una crisi economica a lui non imputabile, e solo quando siano state adottate tutte le misure idonee a fronteggiare la crisi.

Per la Corte d’Appello, invero,

il fatto che l’imputata abbia ammesso di avere avuto una alternativa e di avere scelto di pagare gli stipendi e le mensilità in corso al fine di assicurare la continuità aziendale, anziché provvedere al pagamento delle ritenute operate nel precedente anno d’imposta, esclude che la stessa si sia trovata in una situazione di assoluta impossibilità di adempiere al debito d’imposta“.

La Suprema Corte rileva che la corte territoriale opera una ricostruzione della fattispecie penale non giuridicamente completa. Invero, sorvolando la questione della sussistenza o meno, in concreto, di una crisi economica non imputabile e non affrontabile con misure idonee, si sofferma, in realtà, soltanto sull’asserto che il denaro per versare le ritenute era disponibile, in quanto l’imputata aveva ammesso di avere scelto di utilizzarlo per pagare i dipendenti della società. Da ciò, appunto, il giudice d’appello desume che la stessa avrebbe potuto adempiere al debito d’imposta, senza peraltro esaminare se una siffatta scelta fosse realmente compatibile con il dolo della fattispecie criminosa.

La Corte di Cassazione osserva come, dall’epoca in cui ha dovuto esaminare vari episodi di omesso versamento del debito d’imposta da parte di imprenditori la cui impresa veniva a trovarsi in una gravissima crisi di liquidità, e sovente persino sull’orlo del fallimento, ha riconosciuto che l’omesso versamento in una situazione di crisi simile può non integrare il reato, o sotto un profilo dell’elemento soggettivo o sotto il profilo della esimente rappresentata dalla forza maggiore: il problema, insorto da una globale situazione economica, era stato d’altronde ben percepito dalla dottrina, anche sulla scorta, ovviamente, delle prime pronunce della giurisprudenza di merito al riguardo.

Prendendo le mosse, dunque, da un rigore, per così dire, di sistema che si era conformato in un’epoca economicamente opposta, in cui la sopravvenuta crisi di liquidità dell’impresa derivava ordinariamente dalla mala gestio del singolo imprenditore (…) questa Suprema Corte, alla luce di spiragli già creati da S.U. 23 marzo 2013 n.37425, ric. Favellato, ha successivamente aperto spazi di manovra, oscillando appunto, vista anche l’eterogeneità dei concreti casi esaminati, tra la soluzione rinvenibile nell’esimente e quella riconducibile, invece, all’elemento soggettivo (cfr., ex multis, Cass. sez. 3, 9 ottobre 2013-7 febbraio 2014 n. 5905, ric. Maffei, non massimata, cui fa riferimento anche il ricorso; Cass. sez. 3, 6 novembre 2013 n. 2614, ric. Saibene; Cass. sez. 3, 5 dicembre 2013-4 febbraio 2014 n. 5467, ric. Mercutello; Cass. sez. 3, 8 gennaio 2014 n. 15416, ric. Tonti Sauro, non massimata; Cass. sez. 3, 11 dicembre 2014 n. 51436, ric. PM Sassari, non massimata; Cass. sez. 3, 21 gennaio 2015 n. 7429, ric. PM Potenza; Cass. sez. 3, 24 giugno 2014-25 febbraio 2015 n. 8352, ric. Schirosi, Cass. sez. 3, ric. Olivetto, 29 marzo 2017 n. 46459)”.

La Terza Sezione osserva che la corte territoriale effettua una sorta di scorciatoia logica: se l’imputata, quale legale rappresentante della società loro datrice di lavoro, aveva pagato gli stipendi ai lavoratori, si doveva escludere che la stessa si trovasse in una situazione di assoluta impossibilità ad adempiere il debito d’imposta.

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Sul punto, la Cassazione ricorda che per integrare il reato in questione è sufficiente il dolo generico (cfr. S.U. 28 marzo 2013 n.37425, ric. Favellato, cit.; Cass. sez. III, 26 maggio 23:10 n. 23875, ric. Olivieri). Quest’ultimo, tuttavia, non può essere scisso dalla consapevolezza della illiceità della condotta che viene investita dalla volontà.

Nella motivazione, la recente Cass. sez. 3, 24 giugno 2014-25 febbraio 2015 n. 8352, ric. Schirosi, ha ben focalizzato questo profilo, oltrepassando la restrittività di Cass. sez. III, 26 maggio 2010 n. 25875, ric. Olivieri, appena citata – per cui il dolo sarebbe stato integrato dalla mera consapevolezza della condotta omissiva – tramite l’osservazione che nel reato de quo il dolo è integrato dalla condotta omissiva attuata nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma anche un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato“.

Prosegue la Cassazione affermando

la piena consapevolezza della illiceità della condotta che si pone in essere non può, in effetti, mancare nel dolo in un reato come quello in esame, fattispecie propria di chi assume ex lege la funzione di sostituto d’imposta, funzione di assoluto rilievo nel sistema fiscale: e non a caso la sentenza Schirosi rafforza tale constatazione, a ben guardare, laddove poi osserva che la scelta di non pagare prova il dolo: il che significa che il dolo non viene integrato dall’omesso pagamento di per sé, ma da una scelta consapevole, appunto, della illiceità della condotta rappresentata dall’omesso pagamento”.

La corte territoriale, invece, non ha considerato tale profilo, attestandosi sulla carenza di forza maggiore impeditiva della condotta, ovvero sulla prova, che ha reputato raggiunta, della sussistenza della liquidità per effettuare il versamento.

Secondo i Giudici, la corte d’appello

avrebbe, invece, dovuto accertare in modo completo la fattispecie criminosa, ovvero anche in relazione all’elemento soggettivo, non potendo a priori escludere che la convinzione che i dipendenti necessitassero l’immediata corresponsione (non di somme di denaro di per sé, bensì) di mezzi di sostentamento necessari per loro e per le loro famiglie, se realmente fosse stata propria della imputata e se realmente l’avesse indotta a pagarli a costo di omettere il versamento delle ritenute, fosse stata nel caso concreto compatibile con il dolo del reato in questione, ovvero con una contestuale consapevolezza di illiceità”.

La conclusione della Cassazione

Tale ultimo motivo è stato accolto dagli Ermellini, secondo i quali la corte territoriale non ha correttamente applicato l’articolo 10 bis d.lgs.74/2000 in relazione al necessario completo accertamento della fattispecie criminosa come disegnata dalla norma ed ha annullato la sentenza con rinvio ad altra sezione della stessa corte territoriale.

Avv. Silvia Zazzarini


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