L’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO NON PUO’ IMPUGNARE IL MATRIMONIO DEL PROPRIO ASSISTITO

“[…] La Corte ha così avuto modo di chiarire che la nullità derivante dalla sua omessa partecipazione al giudizio si converte in motivo di gravame. Tuttavia, lo stesso può essere fatto valere unicamente dalla parte pubblica e non da altri soggetti […]”

Analizziamo con questo articolo una sentenza emessa dalla Prima Sezione civile della Corte di Cassazione (n. 11536/2017) che riguarda il caso di un soggetto che ha deciso di sposare la propria badante nonostante fosse oggetto di amministrazione di sostegno.

Un (non apparente) ultraottantenne particolarmente arzillo se, nonostante fosse invalido di guerra e invalido civile al 100%, con necessità di assistenza globale permanente e già affatto da ictus cerebrale, aveva sposato la propria badante di quarant’anni più giovane.

Sono i figli dell’anziano a promuovere il giudizio, affermando di aver scoperto solo nell’anno 2007 del matrimonio del padre e di aver conseguentemente scoperto che la neo moglie aveva dilapidato i beni di famiglia (donazioni mascherate da contratti di compravendita).

Nonostante il primo grado avesse dato torto ai figli dell’anziano, la Corte d’Appello di Napoli, l’8 maggio 2014, ha stabilito che il matrimonio era da ritenersi nullo, abbracciando così la tesi degli appellanti.

Il successivo ricorso per Cassazione ha rovesciato l’esito della Corte territoriale.

Uno dei motivi sollevati riguardava il mancato intervento del Pubblico Ministero al procedimento de quo. La Corte ha così avuto modo di chiarire che la nullità derivante dalla sua omessa partecipazione al giudizio si converte in motivo di gravame. Tuttavia, lo stesso può essere fatto valere unicamente dalla parte pubblica e non da altri soggetti.

La Corte di Cassazione nel proseguio della sentenza in analisi interviene con chiarezza nell’evidenziare il solco tracciato nell’ordinamento a seguito dell’introduzione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.

L’amministrazione di sostegno si distingue dagli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione per il minor sacrificio della capacità di agire riconosciuta all’amministrato. Chiaramente a seconda della tipologia di impossibilità di configuri in capo a chi non è in grado di provvedere ai propri interessi.

Gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, però, non sono stati aboliti dal legislatore ma unicamente modificati. Questi istituti, a giudizio dei Giudici del Collegio, lungi dal caratterizzarsi per l’analogia dell’uno con l’altro, si collocano su piani totalmente diversi.

Resta comunque pacifico che l’amministrazione di sostegno rappresenti l’istituto con maggiore idoneità ad adeguarsi alle esigenze del soggetto amministrato.

Ciò nonostante, secondo la Suprema Corte, proprio considerando la circostanza per cui il legislatore non ha modificato l’art. 85 c.c., si può concludere che il divieto di contrarre matrimonio può essere imposto unicamente a causa di una declaratoria di interdizione .

In conclusione, richiamando i ragionamenti sin qui svolti, la Cassazione arriva alla conclusione che il matrimonio contratto dall’amministrato non può essere impugnato da terzi.. Infatti, il divieto di contrarre matrimonio può essere imposto unicamente nell’interesse del beneficiario ex art. 119 c.c.. Proprio sulla scorta di detto articolo, ponendosi nell’alveo di una interpretazione dell’istituto secondo i criteri ermeneutici individuati dalla Corte con la presente sentenza, il matrimonio può essere invalidato soltanto in funzione dell’interesse dell’amministrato stesso.