UN CASO, OVVIO, IN CUI LO STALKING VIENE NEGATO

Non è stalking se il padre cerca solo di vedere la figlia

Il reato di stalking richiede la volontà di porre in essere condotte minacciose e moleste con la consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi di cui all’art. 612-bis c.p.

Il papà che perseguita la propria ex moglie per poter vedere la figlia non può, per ciò solo, essere condannato per il reato di atti persecutori.

Con la sentenza n. 537/2018 la Corte d’Appello di Roma ha precisato che l’elemento soggettivo richiesto per lo stalking, secondo un costante principio di diritto, è il dolo generico, ossia la volontà di porre in essere condotte minacciose e moleste con la consapevolezza che le stesse sono idonee a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dall’art. 612-bis c.p.

I giudici evidenziano che deve essere unitario il dolo e, pertanto, anche se può realizzarsi in maniera graduale, deve in ogni caso esprimere una intenzione criminosa che va oltre i singoli atti dei quali si compone la condotta tipica.

V. anche

Nel caso in esame, il padre non aveva fatto altro che porre in essere comportamenti connessi tra loro dall’essere originati dalla sua volontà di esercitare il diritto di visita della figlia minore, mentre mancava del tutto un effettivo intento persecutorio a danno della ex.

In mancanza di elementi di prova atti a far ritenere che la condanna dell’uomo fosse diretta volutamente a creare intorno alla ex un clima di paura per la propria incolumità personale o a costringerla a modificare le proprie abitudini di vita, per la Corte d’appello non può dirsi dimostrato l’elemento psicologico del reato.

L’articolo 612-bis c.p. dispone che:

“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un proprio congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strument informatici o telematici.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’art. 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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