PIGNORAMENTO ERRATO? RISARCIMENTO DEL DANNO ALL’IMMAGINE ED ALLA REPUTAZIONE

Un imprenditore ha visto condannare a suo favore, anche l’Agenzia delle Entrate, al risarcimento del danno all’immagine ed alla reputazione per l’esistenza della trascrizione nulla di un pignoramento immobiliare

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha pronunciato l’ordinanza n. 3428 del 2018 su un ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate.

I Giudici hanno confermato la sentenza della Corte d’appello di Cagliari n. 759/2013 che aveva accolto la domanda risarcitoria del danno all’immagine e alla reputazione di un imprenditore per l’esistenza della trascrizione nulla di un pignoramento immobiliare a suo carico.

Il caso

L’attore ha convenuto in giudizio il Conservatore dei Registri Immobiliari di Cagliari, l’Agenzia del Territorio (poi Agenzia delle Entrate), il Ministero dell’economia e delle finanze, e l’avvocato che aveva ottenuto un decreto ingiuntivo nei suoi confronti, dopo essere venuto a conoscenza dell’esistenza di una trascrizione di pignoramento immobiliare a suo carico.

La Conservatoria aveva precisato che si trattava di una trascrizione nulla, perché basata su decreto ingiuntivo non provvisoriamente esecutivo ottenuto dall’avvocato.

L’attore nell’atto di citazione ha chiesto la completa eliminazione ovvero idonea annotazione, incisive con efficacia retroattiva sulla formalità, che superassero la cancellazione provvisoriamente ottenuta con provvedimento giurisdizionale d’urgenza.

Ha proposto altresì domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, tenuto conto della sua attività di imprenditore commerciale, consigliere provinciale e sindaco.

Il Conservatore e l’Agenzia delle Entrate, costituiti, hanno osservato come fosse stata adottata ogni iniziativa utile alla cancellazione, mentre non vi era prova che si fosse concretato alcun danno, proponendo a loro volta domanda di manleva a carico dell’avvocato. Questi ha resistito in giudizio adducendo di aver immediatamente prestato il consenso alla cancellazione.

Il Tribunale di Cagliari ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni.

Avverso tale sentenza, l’attore ha proposto appello in esito al quale la Corte d’Appello di Cagliari, in riforma della sentenza impugnata, ha accolto la domanda risarcitoria inerente al danno all’immagine e alla reputazione, e affermandone la responsabilità solidale a carico dell’Agenzia delle Entrate e dell’avvocato.

Per la Corte territoriale,

il danno doveva ritenersi provato in via presuntiva, atteso che lo stato di incertezza e dubbio derivante dall’erronea trascrizione non poteva che aver determinato un pregiudizio all’immagine a carico di un soggetto apparso insolvente, con ovvi riflessi in ordine all’accesso al credito”.

Il motivo di ricorso

Avverso questa decisione l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione, sulla base di un unico motivo, che prospettava la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729, 10, 2059, 1362 e seguenti, cod. civ., poiché la corte avrebbe in specie fatto malgoverno dei canoni ermeneutici legali nell’individuare il significato delle missive delle banche che rifiutavano la richiesta di finanziamento (formalmente, queste ultime avevano manifestato l’intenzione di accordare i finanziamenti sia pure a seguito di chiarimenti).

La decisione della Corte

La Suprema Corte ha ritenuto il motivo di ricorso in parte infondato e in parte inammissibile.

Dal materiale presuntivo, considerato e sintetizzato, la Corte territoriale ha tratto la prova che l’imprenditore

era apparso come un debitore insolvente in specifiche relazioni commerciali, e che le richieste di finanziamento avevano registrato in prima battuta un arresto, e dunque un discredito creditizio”.

Secondo gli Ermellini

la Corte territoriale, dunque, ha da ciò desunto il pregiudizio all’immagine senza né travisare il contenuto letterale delle missive, né omettere di considerare la complessiva condotta iniziale e successiva degli enti coinvolti. Sicché deve escludersi vi siano state violazioni del regime legale dell’onere probatorio o dei canoni ermeneutici negoziali, o della disciplina legale delle presunzioni in relazione al danno non patrimoniale”.

La Corte rifiuta di dare una rilettura del materiale probatorio per darne un’interpretazione differente da quella, plausibile, offerta dal giudice di merito.

Invero, la Terza Sezione richiama la sentenza n. 28319 del 28/11/2017 affermando

le censure di legittimità non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni”.

In secondo luogo, la Corte ribadisce il principio secondo cui

quando la prova addotta sia costituita da presunzioni, le quali anche da sole possono formare il convincimento del giudice del merito, rientra nei compiti di quest’ultimo il giudizio circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità, se sorretto da motivazione immune (come nella specie) da vizi logici o giuridici (Cass., 16/05/2017, n. 12002)”.

Nel caso di specie, la Suprema Corte osserva che la valutazione complessiva dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, è stata correttamente compiuta dal giudice di merito.

Il danno all’immagine, sebbene non in re ipsa, può essere provato allegando fatti da cui potersi evincere, anche mediante presunzioni semplici, la sua concreta sussistenza e non futilità (cfr. Cass., 11/10/2013, n. 23194)”.

La Corte d’Appello ha infatti evinto

la gravità dell’apprezzabile lesione alla reputazione, e il significativo pregiudizio alla vita di relazione, valorizzando non solamente una generica diffusione della notizia in forza della natura pubblica dei registri, bensì specifici contatti con operatori commerciali dell’ambiente territoriale del danneggiato. Con ciò rispettando i principi nomofilattici sopra esposti”.

La statuizione sulle spese

La Corte, nel rigettare il ricorso, ha precisato di non disporre, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, poiché la previsione non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato.

Condanna, tuttavia, la ricorrente alla rifusione delle spese processuali del resistente costituito.

Avv. Silvia Zazzarini


VUOI RIMANERE SEMPRE AGGIORNATO? ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER