LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO IN CASO DI SVOLGIMENTO DI ALTRO LAVORO DURANTE LA MALATTIA

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di legittimità e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio

Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 07641 del 2019

Nel caso in cui il lavoratore dipendente in malattia svolga un altro impiego tale da ritardarne la guarigione, è legittimo il licenziamento?

Nel caso di specie sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano accolto il ricorso presentato dal datore di lavoro, dichiarando legittimo il licenziamento per giusta causa da questo intimato ad un dipendente, in quanto nel periodo di assenza per infortunio, aveva svolto attività lavorativa consistita nella guida di automezzi e di operazioni di carico/scarico di cerchi in lega per autovetture, in modo da compromettere o ritardare la sua guarigione.

Il giudice di secondo grado a sostegno della propria decisione aveva basato i fatti giunti a conoscenza della società attraverso un’indagine investigativa, dalla quale era emerso un inadempimento contrattuale a carico del lavoratore e la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nei riguardi dei datore di lavoro, tali da giustificarne il recesso.

Il lavoratore nel ricorrere in Cassazione, con il primo motivo, lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 115 c.p.c., 2697 c.c. e 5 della l. n. 604 del 1966, nonché l’art. 24 della Costituzione, per aver la sentenza impugnata ritenuto accertati i fatti descritti nella relazione investigativa, priva ex se di ogni efficacia probatoria.

Gli Ermellini, intervenuti per dirimere la questione hanno ritenuto inammissibile il motivo di ricorso, ricordando che, secondo costante orientamento giurisprudenziale:

“La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 3 c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti”.

Anche il secondo motivo di ricorso è infondato in quanto, la Corte di Cassazione, con le sentenze n. 26496 del 2018 e n. 10416 del 2017 ha chiarito che:

“lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di legittimità e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”.

Pertanto la condotta tenuta dal lavoratore era stata idonea a ritardare la guarigione, essendo incompatibile con le prescrizioni mediche, inoltre in seguito ad una visita medica veniva constato tra l’altro proprio un ritardo nella guarigione e di conseguenza un ritardato rientro nel posto di lavoro.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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