A VOLTE BASTA UN TWEET PER ESSERE LICENZIATI

In quali casi i post o i tweet di un dipendente possono mettere a rischio il suo posto di lavoro?

Un post su Twitter può costate il posto di lavoro al dipendente? Vediamo in quali casi ciò è possibile.

Twitter è un social network che permette ai suoi iscritti di condividere immagini, video e commenti.

Nel caso di specie viene contestato ad un dipendente di aver pubblicato sul proprio profilo Twitter alcuni Tweet dal contenuto offensivo e denigratorio nei confronti dell’azienda per cui lavorava. L’uomo non aveva mai contestato l’esistenza di tali Tweet ma ne aveva contestato genericamente la paternità.

I giudici, intervenuti sulla questione hanno precisato che:

“è un diritto costituzionalmente garantito quello di esprimere il proprio dissenso rispetto alle opinioni e scelte altrui, ma i toni debbono comunque essere quelli di una comunicazione non offensiva né ingiuriosa se si intende restare nell’alveo di un dialogo, oltre che civile e costruttivo, legittimo. Si deve ter conto che l’esternazione di tali opinioni è stata fatta tramite un mezzo potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone”.

Il CCL applicabile al lavoratore in questione dispone all’art. 30, che il licenziamento senza preavviso può essere adottato nei confronti del personale responsabile di “mancanze così gravi da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro”, richiamando quando disposto dall’art. 2119 c.c.

La stessa norma prevede il licenziamento con preavviso per il dipendente che

“leda l’immagine della compagnia utilizzando media e/o social network in modo inappropriato”.

Ad una più attenta analisi emerge che i fatti contestati rientrino in tale ultima ipotesi e quindi siano tali da legittimare il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Secondo costante orientamento giurisprudenziale:

“Il licenziamento disciplinare può essere determinato, in relazione anche al giustificato motivo e non solo alla giusta causa, da comportamenti estranei alla prestazione professionale che, in relazione alla loro adeguata consistenza e censurabilità, costituiscano violazione degli obblighi di fedeltà all’impresa, ovvero della buona fede integrativa del contenuto contrattuale del rapporto di lavoro, implicante un leale comportamento verso il datore di lavoro”.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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