VIOLENZA PRIVATA – QUANDO IL DIPENDENTE È COSTRETTO A DIMETTERSI

Condannato per violenza privata il datore di lavoro che costringe il dipendente a dimettersi

Corte di Cassazione, quinta sezione penale, sentenza n. 25597 del 2019

La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di primo grado aveva riconosciuto l’imputato responsabile, nella qualità di direttore di una s.r.l., del delitto di violenza privata commesso ai danni di un dipendente della compagnia, costretto a sottoscrivere una lettera di dimissioni.

Nello specifico, il lavoratore, durante un’interlocuzione con il caporeparto e con il direttore dello stabilimento, originata da contestazioni relative al mancato funzionamento di uno strumento di lavoro, era stato indotto, contro la sua volontà, a scrivere di suo pugno una dichiarazione di recesso dal contratto di lavoro stipulato con la s.r.l. in questione.

L’articolo 610 del codice penale, nel disciplinare la violenza privata dispone che:

“Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni.

La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339”.

Nel ricorrere in Cassazione l’imputato lamenta violazione di legge in relazione all’art. 610 c.p. e art. 129 c.p.p., comma 2 e art. 578 c.p.p., sul rilievo che la minaccia utilizzata per costringere il dipendente a scrivere le proprie dimissioni era stata realizzata prefigurando un male del tutto irrealizzabile e, quindi, oggettivamente inidoneo a fungere da elemento di pressione sulla volontà del destinatario della presunta costrizione.

Gli Ermellini, intervenuti sul punto hanno dichiarato infondato il ricorso presentato dall’imputato, rammentando che:

“l’idoneità della minaccia, costitutiva del delitto di violenza privata, sussiste in presenza di un’oggettiva riconoscibilità del male ingiusto, siccome desumibile dalla situazione contingente, non rilevando l’improbabilità che il male prospettato si verifichi effettivamente. Sicché anche la richiesta riconducibilità del male ingiusto prospettato alla sfera di azione e di volizione dell’agente non deve essere apprezzata in astratto, ma con criterio medio, in relazione alle concrete circostanze del fatto e ai rapporti tra l’autore e la vittima del reato”.

Nel caso di specie la disparità di forze esistenti tra il datore di lavoro ed il dipendente, connotato da evidenti fragilità caratteriali, note all’imputato, integrano di certo la piattaforma probatoria sufficiente a fondare il giudizio di concreta idoneità intimidatoria.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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