QUANDO SI PARTORISCE IN ANONIMATO
IL BILANCIAMENTO DEL DIRITTO ALL’ANONIMATO DELLA MADRE E IL DIRITTO DEL FIGLIO ALLA RICERCA DELLE PROPRIE ORIGINI
La Giurisprudenza e la dottrina si sono difficilmente risolte sulla questione relativa al bilanciamento tra il diritto della donna a partorire in anonimato ed il diritto del figlio ad conoscere le proprie origini.
Sul punto illuminante risulta la recente sentenza della Cassazione civile sez. I, del 09/09/2022, (ud. 01/07/2022, dep. 09/09/2022), n.26616.
Nel caso sotteso alla pronuncia in esame, i giudici d’appello avevano sostenuto che
“il diritto all’anonimato della donna non assurge a un diritto fondamentale, quale è quello del figlio naturale di tracciare le proprie origini personali, per ricostruire la propria identità, e parimenti recessivo era il diritto alla riservatezza e all’oblio, peraltro estintosi con la morte della donna.”
Il Procuratore Generale presso la Corte d’appello ricorreva in Cassazione, lamentando la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983, art. 28,
“per avere la Corte d’appello ritenuto recessivo il diritto all’anonimato della madre biologica defunta rispetto al diritto dell’adottato di ricerca delle proprie origini, non riconoscendo tutela al diritto della defunta all’immagine sociale, all’identità ed al trattamento dei dati personali.”
Come anche ricordato dalla Suprema Corte nella parte motiva della pronuncia in commento, nella fattispecie de qua si trattava di bilanciare due diritti fondamentali, ossia quello dell’adottato all’accesso alle proprie origini e il diritto all’anonimato esercitato dalla madre naturale al momento del parto.
Ricordavano gli Ermellini che:
“Con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (sottoscritta il 20 novembre 1989 e ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176), prima, e con la Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale (sottoscritta il 29 maggio 1993 e ratificata con L. 31 dicembre 1998, n. 476, poi, nella nostra legislazione ordinaria, è stato preso in considerazione il diritto di ciascuno di conoscere le proprie radici. L’impegno assunto in sede internazionale ha trovato attuazione con la modifica della L. n. 184 del 1983, art. 28, ad opera della L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 24 (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile). Nel nuovo testo, infatti, pur essendo conservato il divieto di ogni riferimento all’adozione nelle attestazioni dello stato civile, è stato consentito all’adottato di accedere, seppur in presenza di specifiche condizioni, alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei genitori biologici. I commi 5 e 6 del menzionato art. 28, così recitano: “5.L.’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. 6. Il tribunale per i minorenni procede all’audizione delle persone di cui ritenga opportuno l’ascolto; assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di valutare che l’accesso alle notizie di cui al comma 5, non comporti grave turbamento all’equilibrio psicofisico del richiedente. Definita l’istruttoria, il tribunale per i minorenni autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste”. Il successivo comma 7, come introdotto per effetto della L. 28 marzo 2001, n. 149 (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile), sanciva, tuttavia, che “L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”.”
Il diritto all’anonimato, dopo il cenno avuto nella L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, è stato ulteriormente ribadito, sia del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, sia del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 93, commi 2 e 3.
Il comma 7 dell’art. 28 L. 184/1983, è stato poi modificato dalla L. n. 196 del 2003, nell’art. 177, comma 2 per cui:
“La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata.”
L’Ordinamento italiano, come anche ricordato dalla suprema Corte, tutela senza limitazioni il diritto all’anonimato della madre:
“L’art. 93, comma 3, (“certificato di assistenza al parto”), del codice in materia di protezione dei dati personali, prevede infatti che, prima dei cento anni dalla formazione del documento (termine da cui l’accesso al testo integrale è consentito a chiunque vi abbia interesse), “la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”.”
A seguito, con la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, dichiarata
“l’illegittimità costituzionale della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 177, comma 2 (Codice in materia di protezione dei dati personali)” si prevedeva la possibilità per il figlio di chiedere alla Magistratura di interpellare la madre per invitarla alla revoca della dichiarazione di volontà all’anonimato, in tal modo evidenziando “l’irragionevolezza dell’irreversibilità del segreto conseguente alla scelta di anonimato operata dalla madre partoriente, in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost.”. Si conformavano le Sezioni Unite con provvedimento n. 1946/2017, seguite dalle sezioni semplici che, a titolo esemplificativo e non esaustivo, con la sentenza n. 6963/2018 ribadivano il principio per cui “l’adottato ha diritto, nei casi di cui della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 5, di conoscere e proprie origini accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelle delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto”. E così poi con la pronuncia n. 22497/2021 (conf. Cass. 7093/2022) veniva specificato che: “il figlio nato da parto anonimo ha diritto di conoscere le proprie origini, ma il suo diritto deve essere bilanciato con il diritto della madre a conservare l’anonimato, e deve pertanto consentirsi al figlio di interpellare la madre biologica al fine di sapere se intenda revocare la propria scelta, occorrendo però tutelare anche l’equilibrio psicofisico della genitrice; pertanto il diritto all’interpello non può essere attivato qualora la madre versi in stato di incapacità, anche non dichiarata, e non sia pertanto in grado di revocare validamente la propria scelta di anonimato, e non rileva, ai fini dell’applicazione di queste regole, l’abrogazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, comma 2, che aveva sostituito della L. n. 183 del 1984, art. 28, il comma 7, che inibiva il diritto alla conoscenza delle origini del nato da parto anonimo, sia perché il limite alla conoscenza di cui all’art. 28, comma 7, era già stato introdotto con la L. n. 149 del 2001, sia perché deve tenersi conto dell’intervento additivo di principio, cui ha provveduto la Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013”.
Con la sentenza n. 15024/2016, richiamata anche nella pronuncia in commento, si è stabilito che sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, in quanto il diritto all’anonimato della madre ha la funzione principale di contrastare l’opzione abortiva ed è pieno al momento della nascita, persistendo poi al fine di tutelare la scelta compiuta dalla donna.
A seguito poi, la pronuncia n. 22838/2016, ha ulteriormente specificato che
“il diritto ad accedere ad informazioni identificative in caso di morte della madre naturale non possa essere esercitato indiscriminatamente, in quanto, se alla morte della donna consegue l’estinzione del diritto personalissimo alla riservatezza, la procedura di accesso alle origini dovrà pur sempre essere informata al rispetto dei canoni di liceità e correttezza senza pregiudizio di “terzi eventualmente coinvolti”, i quali possono legittimamente vantare un diritto a essere lasciati soli, ovvero all’oblio, e, diversamente, a reclamare che l’accesso a dati avvenga senza cagione di pregiudizio”
Dunque, in caso di decesso della madre, il figlio, può essere autorizzato dal Tribunale per i Minorenni ad accedere alle informazioni riservate sulla identità della propria madre senza particolari ostacoli e l’esigenza di tutela dei diritti degli eredi e discendenti della donna che ha optato per l’anonimato non può che essere recessiva rispetto a quella del figlio.
Pertanto la Corte respingeva i ricorsi.
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Cassazione civile sez. I 09.09.2022 (ud. 01.07.2022 dep. 09.09.2022) n.26616