MOBBING

Alcune interessanti pronunce della Corte di Cassazione sul Mobbing

Prima di esaminare le varie sentenze emesse in tema di “Mobbing”, vediamo in che cosa si sostanzia tale fenomeno.

Etimologicamente parlando la parola mobbing deriva dall’inglese to mob, ossia assalire, molestare.

Il mobbing sul luogo di lavoro ricomprende tutta una serie di comportamenti vessatori, posti in essere da parte di superiori gerarchici e/o colleghi nei riguardi di un lavoratore.

Tale comportamento si caratterizza per essere prolungato nel tempo e idoneo a ledere la dignità sia personale che professionale del malcapitato, tanto da poter avere conseguenze anche sulla sua salute psicofisica.

Recentemente, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30126 del 2018 ha chiarito che nel caso in cui il lavoratore, sotto l’effetto del mobbing, abbia prestato le proprie dimissioni, queste non sono legittime. Infatti, secondo un costante orientamento giurisprudenziale:

“Nel giudizio promosso dal lavoratore in cui si controverta sulle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro l’indagine circa la sussistenza di dimissioni del lavoratore deve essere rigorosa, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell’ordinamento, sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata volontà di porre fine al rapporto stesso”.

Gli Ermellini, con la sentenza n. 10285 del 2018 hanno chiarito che la privazione dei poteri gerarchici e gestori, in capo ad un dipendente del Comune, la mancata consultazione nella riorganizzazione degli uffici, la mancata inclusione nei piani di lavoro e la relativa mancata erogazione del salario accessorio, la distrazione della posta, sono tutti elementi che singolarmente ledono la dignità del lavoratore nel suo ruolo di preposto servizio; ma che valutati secondo un apprezzamento unitario, risultano accomunati da un unico filo conduttore.

Invece la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18717 del 2 maggio 2018 ha affrontato il caso in cui le offese ed i dispetti non erano posti in essere dal datore di lavoro ma da un collega.

In tal caso si configura l’ipotesi del mobbing orizzontale, se un dipendente di pari livello prende di mira un altro collega umiliandolo.

Gli Ermellini hanno ribadito che essendo il datore di lavoro responsabile della salute dei propri dipendenti questo deve adottare misure punitive o in casi estremi il licenziamento se si verificano casi di mobbing.

Sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3871 del 2018 ha chiarito che:

 “Nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di natura asseritamente vessatoria il giudice del merito, pur nell’accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati, seppure non accomunati dal fine persecutorio, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili”.

La sezione lavoro, della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30606 del 2018, ha rammentato quali sono i requisiti richiesti al fine della configurabilità del mobbing disponendo che:

    “Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio-illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi. In tema di onere della prova, poi, la Corte di merito si è adeguata, facendone corretta applicazione, al criterio in virtù del quale incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, mentre se vi sia stata prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”.

Da ultimo ci si deve chiede se il mobbing rientra tra le malattie professionali; a fornire tale delicata risposta è stata la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 20774 del 2018, che in conformità all’orientamento già espresso con la sentenza n. 5066 del 2018 ha confermato che nel momento in cui al lavoratore è stata data la possibilità di provare l’origine professionale di qualsivoglia malattia, sono venuti meno, per forza di cose, i criteri selettivi del rischio professionale, inteso come rischio identificato nelle tabelle o nelle norme regolatrici.

Pertanto se dimostrato anche il mobbing può essere ricompreso tra le malattie professionali.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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