“SI” AL REATO DI ABBANDONO DI ANIMALI ANCHE SE SI È AFFETTI DA MALATTIA MENTALE

Il reato di abbandono di animali si configura anche in caso di parziale vizio di mente

Corte di Cassazione, terza sezione penale, sentenza n. 07259 del 2019

L’articolo 727 del codice penale, punisce chiunque abbandoni un animale, e nello specifico la disposizione in esame dispone che:

“Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.

Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze”.

Il fatto di essere affetti da una malattia mentale esula dall’essere puniti per l’abbandono di un animale?

La Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza in commento ha cercato di risolvere tale questione alquanto delicata.

Nel caso di specie, l’imputata riconosciuta affetta da un parziale vizio di mente, era stata condannata dal Tribunale di primo grado per il reato di cui all’art. 727 c.p. per aver abbandonato un cucciolo di cane di appena cinque mesi lasciandolo legato ad un palo sul ciglio della strada.

Nel ricorrere in Cassazione l’imputata aveva dedotto come primo motivo di ricorso l’illegittimità della sentenza impugnata in quanto, ai fini della valutazione dell’imputabilità della stessa, il Tribunale aveva considerato le risultanze di una perizia d’ufficio fatta disporre dall’ufficio in diversa composizione personale.

Invece il secondo motivo riguarda l’inutilizzabilità della relazione peritale depositata dal perito innanzi al Tribunale in diversa composizione personale. Da ultimo con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la nullità della sentenza per non essere stata dichiarata la mancanza di imputabilità della stessa per totale incapacità di intendere e di volere al momento del compimento del fatto.

Gli Ermellini intervenuti sulla questione hanno dichiarato infondato il ricorso presentato dalla donna, evidenziando come la relazione del perito aveva precisato che sebbene le capacità dell’imputata di intendere e di volere fossero grandemente scemate al momento dei fatti di causa, non era socialmente pericolosa ed era in grado di partecipare al processo.

La Corte di Cassazione non disconosce l’orientamento interpretativo più volte espresso secondo il quale:

“Il principio di immutabilità del giudice, sancito dall’art. 525, secondo comma, c.p.p., riguarda l’effettivo svolgimento dell’intera attività dibattimentale, in particolare le acquisizioni probatorie, la risoluzione delle questioni incidentali e le decisioni interinali inerenti all’oggetto del giudizio, restando esclusa dalla disciplina in questione la sola attività meramente ordinaria, non incidente sul merito della decisione che sarà assunta ma destinata esclusivamente a regolare la semplice continuità procedimentale del giudizio, con la conseguenza che il ricordato principio risulterebbe violato laddove il giudice avesse deciso sulle richieste istruttorie delle parti, ammettendole o negandole, non fosse lo stesso che abbia successivamente deliberato la sentenza”.

Si deve precisare che la rinnovazione del dibattimento potrà essere operata senza la necessità di dover formalmente riassumere le prove precedentemente acquisite innanzi alla diversa composizione personale dell’Ufficio giudiziario.

Infatti:

“non vi è nullità della sentenza qualora le prove siano state assunte di fronte ad un giudice in diversa composizione personale rispetto a quello che abbia deliberato la decisione ma ad opera del quale è stata disposta la rinnovazione del dibattimento, sia pure nella forma della lettura degli atti, nel caso in cui le parti non si siano opposte a tale operazione chiedendo esplicitamente la materiale rinnovazione dell’attività dibattimentale”.

Infine per quanto riguarda l’ultimo motivo di impugnazione si deve evidenziare come la certificazione medica prodotta dall’imputata si riferisce a due anni dopo l’accaduto e certifica una patologia psichiatrica di tipo bipolare, in trattamento farmacologico, che ha giustificato diversi ricoveri in ospedale.

La patologica della ricorrente non è mai stata tale da aver consentito l’invalidazione della coscienza, e quindi la capacità di intendere e volere era intatta al momento del compimento del fatto in questione.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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