UN CASO SUL CONCORSO DI COLPA O MENO CON LA P.A.

COLPEVOLE L’ADULTO SORVEGLIANTE E NON IL COMUNE SE IL BIMBO CADE PER UN DISLIVELLO STRADALE

La Pubblica amministrazione ha il dovere di custodia e manutenzione delle cose rientranti nel demanio dello Stato e, conseguentemente, può essere chiamata a risarcire i danni cagionati da alterazioni del manto stradale, purché si tratti di  danneggiamenti di rilevante entità e che non siano opportunamente visibili dall’utente. La presenza di alterazioni infatti, attiene l’obbligo di custodia della cosa che spetta all’ente pubblico.

All’infortunato spetta l’onere di provare il danno ed il nesso di causalità, mentre la P.A. chiamata in causa, deve dare prova del fatto che l’ostacolo da cui è derivato il danno era evitabile, tenendo conto dell’entità dell’ostacolo stesso, della visibilità e della conoscenza dei luoghi da parte del soggetto danneggiato.

Invero, seppur la P.A sia tenuta alla corretta custodia e manutenzione delle strade, è altrettanto vero che l’utente deve fare attenzione ed evitare ostacoli evidenti, dunque scongiurando danni  prevedibili.

Può anche sussistere un c.d. “concorso di colpa del danneggiato” laddove la colpa sia addebitabile in percentuale tra l’utente, che avrebbe dovuto stare più attento e la P.A., che avrebbe dovuto curare dippiù il manto stradale.

In tal caso, verrà riconosciuto sì un risarcimento, ma ridotto in misura proporzionale ai sensi dell’art. 1227 c.c.

Ad esempio, l’illuminazione e le dimensioni di una buca, sono circostanze idonee a rendere un ostacolo prevedibile ed a gravare di conseguenza sulla misura del risarcimento del danno.

Vi sono fiumi di Giurisprudenza in materia che valutano le singole casistiche.

Tra le diverse pronunce, risulta rilevante la recente Sentenza della VI Sezione della Cassazione civile del 11/11/2022 n. 33390, che scagionava il Comune per i danni riportati da un minore che cadeva in un dislivello stradale, ritenendo invece colpevole il nonno che aveva il dovere di sorveglianza del nipotino.

In particolare, nella vicenda sottesa alla fattispecie in esame, accadeva che i genitori del piccolo convenissero innanzi al Tribunale di primo grado il Comune, chiedendo che l’Ente venisse condannato al risarcimento dei danni patiti dal loro figlio minore, derivanti da una caduta conseguente alle cattive condizioni di manutenzione del marciapiede.

Ottenuta una prima sconfitta, i soccombenti impugnavano la pronuncia in Corte d’Appello. Ma, ancora una volta, la Magistratura respingeva le domande degli attori.

Così, quest’ultimi, si appellavano alla Suprema Corte, per veder soddisfatti gli interessi del figlioletto che, nel frattempo, era divenuto maggiorenne e agiva per conto proprio.

Il giovane quindi, per il tramite del proprio procuratore, lamentava la violazione dell’art. 2051 c.c., giacché, dalle deposizioni testimoniali, risultava che lo stesso era caduto a causa delle sconnessioni del marciapiede; la violazione dell’art. 2729 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., in quanto la Corte d’appello avrebbe fondato la propria decisione su circostanze non allegate dal Comune, così fondando la propria sentenza su mere presunzioni; la violazione dell’art. 2729 c.c., poiché la pronuncia oggetto di gravame, deduceva che il luogo della caduta, fosse nei pressi della casa del nonno e dunque presupponeva erroneamente che il piccolo fosse a conoscenza dello stato di dissesto del marciapiede; la violazione dell’art. 115 c.p.c., poiché la Magistratura non aveva tenuto conto del fatto che il marciapiede fosse coperto da fogliame e che l’evento si fosse verificato di sera, quindi in condizioni di scarsa visibilità e la violazione degli artt. 1227 e 2051 c.c., perché il comportamento anche imprudente della vittima, non poteva costituire esimente per il Comune tenuto alla manutenzione del marciapiede.

Nel rigettare le doglianze proposte, la Suprema Corte, premetteva innanzitutto che aveva già stabilito

con le ordinanze 1 febbraio 2018, nn. 2480, 2481, 2482 e 2483, che in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 della Costituzione. Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.”,

poi conformandosi ai predetti principi.

Così gli Ermellini confermavano la correttezza dell’iter logico giuridico seguito da ultimo dalla Corte d’Appello, la quale attribuiva l’intera responsabilità dell’accaduto al minore ed al nonno che era tenuto alla sua sorveglianza e ciò sul presupposto che la caduta era avvenuta in un luogo ben noto al bambino; che lo stato di dissesto della via era cosa nota sia ai genitori che al minore; poiché nell’evento il bambino stava evidentemente correndo e che, in particolar modo,

il comportamento colposo di chi era tenuto alla sorveglianza era tale da interrompere il nesso di causalità tra la cosa e il danno, escludendo in questo modo la responsabilità del Comune ai sensi sia dell’art. 2051 che dell’art. 2043 del codice civile”.

A nulla poteva rilevare l’eccezione del ricorrente circa l’ora buia e la mancanza di pubblica illuminazione giacché, secondo la Corte,

lo stesso ricorrente riferisce che la caduta avvenne intorno alle ore 20.30 del 12 luglio 2010 e che può ritenersi nozione di comune esperienza che nel mese di luglio vi sia a quell’ora una piena visibilità, tanto più rilevante in considerazione della notorietà dei luoghi.”

Così, in conclusione, la Suprema Corte rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. n. 55 del 10 marzo 2014.

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Cassazione civile sez. VI, 15.12.2022, (ud. 11.11.2022, dep. 15.12.2022), n.36835