UN CASO IN CUI I FIGLI NON VOGLIONO VEDERE UN GENITORE


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I figli non vogliono vedere il padre, la madre è responsabile?

Corte di Cassazione, sesta sezione penale, sentenza n. 601 del 2020

La Corte d’Appello, in riforma della decisione di primo grado, che aveva assolto l’imputata dal reato di cui all’art. 388, secondo comma, c.p. perché il fatto non costituisce reato, ha condannato la donna alla pena di sei mesi di reclusione.

L’art. 388, secondo comma, c.p. dispone testualmente (Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice):

“La stessa pena si applica a chi elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342 ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero ancora l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero amministrativo o contabile, che concerna l’affidamento di minorio di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito”.

La condotta contestata all’imputata è quella di aver eluso il provvedimento adottato dal Tribunale, nonché i provvedimenti emessi nel procedimento di separazione riguardanti la possibilità del coniuge separato di vedere i figli minori nei periodi prestabiliti.


L’imputata aveva riferito di rapporti conflittuali tra padre e figli e aveva provveduto ad effettuare diversi tentativi al fine di farli riavvicinare.

Nel ricorrere in Cassazione lamenta che ai fini della sussistenza del reato contestato occorre che la condotta posta in essere sia di ostacolo alla realizzazione delle prescrizioni imposte con il provvedimento giudiziale, cosa non ravvisabile nel caso di specie.

Gli Ermellini, intervenuti sulla questione hanno ritenuto fondato il ricorso rilevando preliminarmente come il provvedimento assolutorio di primo grado si fondava sulla rilevata assenza di prova certa circa la volontà dell’ex moglie di eludere consapevolmente l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile in ordine all’affidamento dei minori.

Secondo la Cassazione

“nel pervenire al giudizio di colpevolezza in radicale riforma dell’appellata decisione, la Corte distrettuale ha contravvenuto al disposto dell’art. 603, comma 3-bis c.p.p., che ha codificato la regula iuris sancita in tema di rinnovazione dell’attività istruttoria in caso di appello proposto dal Pubblico ministero avverso la decisione assolutoria di primo grado”.

Nel caso di specie la Corte d’Appello, dovendo decidere in merito al ricorso dell’inquirente, che si basava sulla responsabilità dell’imputata per il periodo oggetto di contestazione, dopo aver condiviso la valutazione del PM in ordine alla natura eventualmente permanente del reato di cui all’art. 388, secondo comma, c.p. è pervenuta ad una sentenza di condanna sulla base di una differente lettura della prova dichiarativa in ordine alla violenza dell’obbligo di procedere alla rinnovazione dell’attività istruttoria.

In definitiva, la Corte d’appello doveva procedere a rinnovare la prova dichiarativa e, nello specifico, la testimonianza della parte civile e degli altri testi, sulla base delle quali si è poi determinata a ribaltare la sentenza assolutoria.


Da ultimo si deve ribadire il consolidato principio secondo il quale

“la sentenza che riformi totalmente, in senso assolutorio come di condanna, la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato”.

Pertanto, la sentenza d’appello che ribalti il giudizio liberatorio deve confutare specificamente le ragioni poste dal giudice a sostegno della decisione riformata.

Avv. Tania Busetto

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