CHI RISPONDE DEI DANNI SUBITI DAL PAZIENTE?

MEDICO ASSOLTO NEL PROCEDIMENTO PENALE PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE E RESPONSABILITÀ CIVILE DELL’AZIENDA SANITARIA

Per i danni sofferti dal paziente risponde sia il dottore che li ha cagionati, sia la struttura sanitaria in cui e per cui il medico ha operato.

Si tratta della c.d. solidarietà passiva, che opera però solo confronti del danneggiato ed a sua tutela e non anche nei rapporti interni, in cui la responsabilità è ripartita in proporzione alle rispettive colpe.

Il fatto di avvalersi di un’attività altrui – in questo caso di un dottore – per adempiere a qualcosa, comporta l’assunzione del rischio per i danni eventualmente cagionati da questi al paziente, che la struttura sanitaria si assume quale rischio d’impresa.

La ripartizione della responsabilità tra il medico e la struttura andrà decisa con l’applicazione delle regole in materia di regresso del condebitore solidale (artt. 1298 e 2055 c.c.).

Eccezionalmente la rivalsa della struttura può essere integrale quando l’evento pregiudizievole scaturisce da una condotta del sanitario (imprevedibile e improbabile) del tutto avulsa dalla pianificazione dell’ordinaria prestazione dei servizi.

In questo caso però è la struttura sanitaria che deve superare la presunzione di pari responsabilità, dando prova che l’evento non dipende né dall’inadempimento degli obblighi alla base dell’erogazione del servizio sanitario, né da un difetto di organizzazione, per carenze tecniche o per mancata sorveglianza.

Dunque, se del caso, la struttura sanitaria deve dimostrare non solo la colpa esclusiva del medico, ma anche che la derivazione causale dell’evento dannoso sia riconducibile ad una condotta del sanitario del tutto incompatibile con il piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità (cfr. Cass. n. 24688/2020).

In caso di danni, il medico può essere anche sottoposto a processo penale.

In caso di assoluzione in formula piena, la struttura sanitaria può giovarsene nel procedimento civile.

In materia la Corte di Cassazione civile – sez. III, con sentenza del 12/09/2022, n.26811 ha specificato che:

Nella controversia civile di responsabilità sanitaria, promossa dal danneggiato al fine di ottenere la condanna della struttura sanitaria al risarcimento dei danni, a titolo di responsabilità contrattuale esclusivamente fondata sull’art. 1228 c.c. per il fatto colposo dei medici dei quali si sia avvalsa nell’adempimento della propria obbligazione di cura, la sentenza – pronunciata all’esito di dibattimento nel processo penale al quale abbia partecipato (o sia stata messo in condizione di parteciparvi) soltanto il danneggiato come parte civile e divenuta irrevocabile – che abbia assolto i medici con la formula “perché il fatto non sussiste”, in forza di accertamento effettivo sulla insussistenza del nesso causale tra la condotta degli stessi sanitari e l’evento iatrogeno in danno del paziente in relazione ai medesimi fatti oggetto del giudizio civile di danno, esplica, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., piena efficacia di giudicato ostativo di un diverso accertamento di quegli stessi fatti ed è opponibile, ai sensi dell’art. 1306, comma 2, c.c., dalla convenuta struttura sanitaria, debitrice solidale con i medici assolti in sede penale, all’attore danneggiato, ove l’eccezione sia stata tempestivamente sollevata in primo grado e successivamente coltivata.”

In particolare, nella vicenda sottoposta alla pronuncia in esame, un’azienda ospedaliera, impugnando la decisione di secondo grado che aveva confermato la sua responsabilità per il decesso di un paziente connettendola alla condotta colposa dei sanitari, ne aveva eccepito l’erroneità innanzi alla Suprema Corte, richiamando il giudicato esterno formatosi con la sentenza penale oramai irrevocabile, nella quale si era costituita parte civile la moglie del deceduto ed in cui il giudice penale aveva assolto i sanitari con la formula del “perché il fatto non sussiste”.

Per la struttura sanitaria ricorrente, il giudice d’Appello errava da una parte perché aveva ritenuto applicabile l’art. 652 c.p.p. solo in caso di coincidenza soggettiva assoluta tra giudizio penale e quello civile e, dall’altro, confondeva l’efficacia diretta del giudicato esterno (art. 652 c.p.p.) con quella riflessa del giudicato esterno (art. 1306 c.c.).

Accogliendo le doglianze della struttura ricorrente, la Suprema Corte argomentava partendo dai principi sottesi alla vicenda.

Come ricordato dagli ermellini, l’ordinamento italiano

non è ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, avendo il legislatore instaurato un sistema di completa autonomia e separazione fra i due giudizi, salvo limitate eccezioni, tra cui proprio quanto previsto dall’art. 652 c.p.p., ossia l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno, ove il danneggiato dal reato si sia costituito parte civile o sia stato posto in condizione di farlo e sempre che non abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, c.p.p.”

Dunque, atteso il il principio generale dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile, l’eccezione deve intendersi restrittiva e pertanto non può darsi luogo ad applicazione analogica dell’art. 652 c.p.p., tenuto conto dei limiti costituzionali del rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio, richiamati dalla stessa legge delega (cfr. tra le altre, Cass., 2 agosto 2004, n. 14770; Cass., 8 marzo 2013, n. 5898; Cass., 29 agosto 2013, n. 19863; Cass., 18 novembre 2014, n. 24475; Cass., 5 aprile 2016, n. 6541; Cass., 22 giugno 2017, n. 15470; Cass., 13 giugno 2018, n. 15392; Cass., 3 luglio 2018, n. 17316).

Di tal guisa, solo la sentenza penale irrevocabile di assoluzione con formula piena “perché il fatto non sussiste” o perché “l’imputato non l’ha commesso” o perché il fatto sia stato compiuto in adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, pronunciata in seguito a dibattimento, nel giudizio in cui vi è stata la partecipazione del danneggiato come parte civile o nel quale questi sia stato messo in condizione di parteciparvi, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno (si veda ex multis Cass., S.U., 26 gennaio 2011, n. 1768).

L’efficacia del giudicato di assoluzione anche nella sede civile si giustifica sul presupposto che la pronuncia stessa contiene un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e pertanto al giudice civile è precluso procedere ad una diversa ed autonoma ricostruzione dell’episodio,

ma non di indagare, ai fini della cognizione ad esso rimessa, su altre modalità del fatto non considerate dal giudice penale, così come sull’accertamento dell’elemento soggettivo del fatto” (si veda, Cass., 25 novembre 2021, n. 36638).

Al pari, non è vincolato il giudizio civile dalla qualificazione dei fatti accertati, in quanto la assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste” non esonera il giudice civile, davanti al quale sia stata proposta l’azione per il risarcimento dei danni, “dal riesaminare i fatti accertati nel giudizio penale quando il titolo della responsabilità civile sia diverso da quello della responsabilità penale” (Cass., 15 febbraio 1999 n. 1678; Cass., 20 aprile 2007, n. 9508; Cass., 9 dicembre 2010, n. 24862; Cass., 30 novembre 2015, n. 24342).

La Suprema Corte, ciò posto, in ossequio ad un costante orientamento (si veda ex multis Cass., 16 ottobre 1998, n. 10277; Cass., 27 agosto 2001, n. 11272; Cass., 19 maggio 2003, n. 7765; Cass., 20 gennaio 2005, n. 1218; Cas., 20 settembre 2006, n. 20325; Cass., 21 febbraio 2008, n. 4519; Cass., 21 aprile 2016, n. 8035; Cass., 12 marzo 2019, n. 4929), ha poi affermato che la sentenza penale può spiegare effetti anche nel giudizio civile al ricorrere di tre condizioni:

che: a) la sentenza penale sia stata pronunciata in esito al dibattimento; b) che il danneggiato si sia costituito parte civile, ovvero sia stato messo in condizione di farlo; c) che in sede civile la domanda di risarcimento del danno sia stata proposta dalla vittima nei confronti dell’imputato, ovvero di altro soggetto che abbia comunque partecipato al giudizio penale nella veste di responsabile civile.”

L’efficacia del giudicato penale nel processo civile, al ricorrere delle circostanze richiamate, si giustifica anche per il fatto che azionare la pretesa risarcitoria in sede penale è frutto di una scelta volontaria della parte danneggiata, che quindi accetta di subire tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e dalla struttura dello stesso processo penale, tra cui anche quelle derivanti dalla sentenza definitiva di assoluzione che accerti l’insussistenza del “fatto” con effetti, ex art. 652 c.p.p., di giudicato extrapenale.

In conclusione, considerato che nel caso in esame il giudice penale aveva assolto, ai sensi dell’art. 530 c.p.p. e con la formula “perché il fatto non sussiste” i medici dell’Ospedale e, visto che la moglie del deceduto si era costituita parte civile nel giudizio penale contro i sanitari, trovava applicazione l’art. 652 c.p.p., e dunque sussistevano gli effetti extrapenali nel giudizio civile di danno nei confronti degli imputati assolti, inibendo al giudice civile di rimettere in discussione l’accertamento di “fatto” esitato in sede penale e in forza delle regole proprie di quel giudizio.

Il fatto poi che il giudicato penale fosse pronunciato nei confronti dei medici e non della struttura, contro la quale veniva proposta l’azione civile veniva risolto nel senso che operava l’effetto favorevole del giudicato previsto dall’art. 1306, comma 2, c.c., in ragione del rapporto obbligatorio solidale tra la struttura sanitaria e i medici (assolti in sede penale) in essa operanti e quindi la “presenza della solidarietà passiva impedisce l’effetto del giudicato riflesso, che conseguirebbe al nesso di pregiudizialità-dipendenza, e consente l’operatività del solo giudicato favorevole al terzo” (così Cass. n. 18325/2019).

Spiegava la Corte che “perché possa operare la fattispecie di cui all’art. 1306, comma 2, c.c., occorre anzitutto che il giudizio si sia svolto solo tra il creditore ed uno dei condebitori, potendo opporre il giudicato favorevole al creditore solo gli altri condebitori solidali che non hanno partecipato al giudizio” (cfr. Cass., 9 gennaio 2019, n. 303) “39. – E’, altresì, necessario non solo che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei coobbligati in solido non sia fondata su ragioni personali del condebitore, ma, altresì, che gli altri condebitori (non partecipi di quel giudizio) abbiano tempestivamente sollevato la relativa eccezione, trattandosi di eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio” (Cass., 21 dicembre 2011, n. 27906) e dunque, ciò posto, la Corte riteneva l’operatività dell’art. 1306, comma 2, c.c. in ragione del concorso di tutte le richiamate condizioni, sostanziali e processuali.

In conclusione dunque la Suprema Corte accoglieva il ricorso cassando la sentenza impugnata e rigettando la domanda di risarcimento del danno proposta in sede civile dalla moglie del paziente deceduto.

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Cassazione civile sez. III – 12.09.2022, n. 26811