UCCIDERE ANIMALI SENZA ALCUNA NECESSITA’

La Corte di Cassazione, sez. III penale, con la sentenza n. 39053 del 23 settembre 2013 ha condannato a due mesi e dieci giorni di reclusione due veterinari colpevoli di aver ucciso animali senza alcuna necessità

La vicenda:

Nell’anno 2010 due dipendenti dell’Asl dell’Aquila avevano soppresso 9 cuccioli di cane a seguito della richiesta effettuata da parte di una persona che in seguito risulterà non aver alcun titolo per farlo.

Entrambi i dipendenti vennero condannati sia in primo che in secondo grado, in seguito proposero ricorso in Cassazione, sostenendo che:

  1. Sopprimere gli animali era necessario per ragioni sanitarie e sociali, ossia per evitare il randagismo;
  2. Si è agito solamente su ordine di un Superiore

La Corte di Cassazione ha respinto tutto, ribadendo una precedente sentenza, la n. 44822/2007, in base a cui che “lo stato di necessità e qualsiasi altra situazione che porti ad uccidere un animale per evitare un imminente pericolo, o l’aggravamento di un danno inevitabile, non si poteva applicare al caso di specie, in quanto i cuccioli erano in buona salute, accuditi da volontari in un terreno recintato.

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati, infatti è evidente che, nonostante si censuri l’erronea applicazione della disposizione di cui all’art. 544 bis c.p., sotto il profilo dell’elemento psicologico, vengono nella sostanza proposte censure che tendono a proporre una differente lettura delle risultanze, non ammissibili in sede di legittimità.

Correttamente, i giudici d’Appello hanno escluso la sussistenza del preteso errore da parte del ricorrente, quanto alla sussistenza della necessità dell’uccisione, non potendosi ammettere che il dirigente del Servizio veterinario della ASL, ignorasse la normativa regionale che regola il settore, ed hanno del pari ritenuto che l’evidenza della situazione concreta non potesse consentire al ricorrente, materiale esecutore del procedimento di soppressione dei cuccioli, di invocare la scriminante dell’adempimento del dovere, attesa la professione esercitata.

Per tali motivi il ricorso è inammissibile.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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