Ius variandi e mansioni equivalenti

Lo ius variandi e la sua applicazione in caso di adibizione a mansioni equivalenti.

La vicenda che ci interessa prende avvio a seguito di una causa promossa da un capo della Polizia Municipale in un paese del centro Italia. La conclusione dei vari gradi di giudizio ha visto soccombere il promotore della controversia ed ha permesso alla Corte di Cassazione di enunciare rilevanti riflessioni in merito al cosiddetto ius variandi.


La vicenda storica.

Come già anticipato, il presente articolo tratta un caso giudiziario che interessato un dipendente di un piccolo ente pubblico. Per la precisione ci si riferisce al capo della Polizia Municipale di un paese del centro Italia.

Dopo anni di servizio con la mansione di capo della Polizia Municipale è stato trasferito all’ufficio statistiche con il ruolo di responsabile. Il soggetto si è così sentito demansionato rispetto al precedente impiego presso il Comune. Lo stesso, pertanto, lamentava una minus valenza in raffronto alle mansioni precedenti.

Dopo aver impugnato la delibera, il ricorrente ha trovato ragione presso le Corti territoriali, sia di primo che di secondo grado.

Precisamente, sia il Giudice di prime cure che il Collegio in secondo grado hanno ritenuto violato l’art. 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001. Ritenuto, pertanto, che il demansionamento de quo sarebbe stato dimostrato nel corso del giudizio ha ordinato la reintegrazione del lavoratore conferendogli le precedenti mansioni.


Sul ricorso promosso avanti alla Corte di Cassazione.

L’ente pubblico presso cui il ricorrente lavorava ha ricorso in Cassazione sollevando un unico motivo al fine di chiedere la riforma della sentenza impugnata. Secondo l’ente la Corte d’Appello avrebbe trascurato di considerare che le funzioni risultavano inserite tra quelle proprie della vigilanza. Il dipendente era stato così inserito in un ufficio di categoria analoga a quello in cui svolgeva le precedenti mansioni. Come più volte ribadito questo spostamento si era reso necessario a seguito di un nuovo assetto riorganizzativo dell’ente.

La scelta operata dai Giudici di merito si fondava sull’aver ignorato che i criteri applicativi al caso di specie differiscono da quelli applicabili al caso di un’azienda privata. Il mutamento di mansioni, pertanto, non aveva comportato alcuna diminuzione rispetto alle mansioni che il dipendente svolgeva in precedenza.


Sulla decisione della Corte di Cassazione.

Rivoluzionando il giudizio di merito, la Corte ha ritenuto fondato il ricorso promosso dall’ente.

Il ragionamento del Collegio parte dal presupposto che la riconduzione del pubblico impiego alla normativa privatistica non ha comportato l’eliminazione della perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico.

Sul punto, infatti, una corretta interpretazione dell’art. 52 del decreto legislativo 152 del 2001 non può che ritenere sussistente il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto. Al contempo, però, prevede che lo stesso possa essere adibito anche ad altre mansioni equivalenti.

In merito all’equivalenza della mansioni, il primo comma del citato articolo 52 prevede il principio dell’equivalenza formale, ancorata alla valutazione demandata dai contratti collettivi. Pertanto, le mansioni che potranno essere considerate equivalente saranno solo quelle enunciate nei contratti collettivi.

Una simile interpretazione si pone nel solco già tracciato dalla sentenza a Sezioni Unite n. 8740/2009 che sancito la non applicazione dell’art. 2103 c.c. in caso di controversia in materia di pubblico impiego.

L’unico criterio da tenere in considerazione diviene quello dell’equivalenza formale, anche se a discapito della professionalità acquisita nella precedente mansione. il Giudice sul punto non avrà potere discrezionale di giudizio.

Questa interpretazione si pone in ossequio alle ben note esigenze di duttilità del servizio e di buona andamento della Pubblica Amministrazione.


Le conclusioni a cui è giunta la Corte di Cassazione.

Arrivando così alle conclusioni espresse dalla Corte di legittimità, si evidenzia come

“[…] non è ravvisabile alcun demansionamento qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo […]”.

La condizione necessaria e sufficiente per la valutazione di equivalenza delle mansioni si fonda sulla mera previsione della stessa nelle maglie del contratto collettivo nazionale di riferimento.

Infatti, come si riscontra all’art. 3 del c.c.n.l. del comparto Regioni e Autonomie locali, il principio della equivalenza solo in senso formale viene già indicata negli accordi tra le parti sociali.

La Corte tiene altresì a precisare in via incidentale che non deve considerarsi inclusa nelle riflessioni sinora operate, la circostanza che la destinazione ad altre mansioni abbia comportato un totale svuotamento dell’intera attività lavorativa.

Questa ipotesi, in ogni caso, non rientra nell’ambito di applicazione del principio di equivalenza formale. Parrebbe rientrare, piuttosto, nelle ipotesi di sottrazione integrale delle funzioni da svolgere. Sottrazione che di per sé viene già sanzionata sia nel settore pubblico che in quello privato.

La sentenza impugnata è stata, così, cassata con rinvio alla Corte territoriale competente.

Avv. Jacopo Marchini