SUPERMERCATO E LICENZIAMENTO: ATTENZIONE A MANGIARE IL CIBO PRELEVATO DAGLI SCAFFALI

No al licenziamento della dipendente che mangia alcuni prodotti del supermercato in cui lavora

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, sentenza n. 12995 del 2018

La vicenda giudiziaria trae origine dall’episodio in cui una dipendente di un supermercato aveva prelevato una confezione di panini, del salmone e una bibita energetica ed una volta consumati aveva buttato nel cestino del reparto le confezioni vuote.

Detto comportamento per la società datrice di lavoro era da interpretare come dissimulazione dell’impossessamento, di lì la conseguenza della mancata volontà di pagare il cibo consumato, per altro oramai privo del codice a barre.

La lavoratrice da canto affermava che anche la merce oramai era priva del codice a barre avrebbe lo stesso potuto pagarla passando
analoghi prodotti sotto il lettore ottico,e ciò nonstante all’ovvia considerazione che generi alimentari come il pane e il
salmone vengono etichettati in base al loro peso e alla differente qualità.

La Corte d’Appello di L’Aquila, riformando parzialmente la pronuncia del Tribunale, aveva annullato il licenziamento intimato a Caia dalla società ricorrente, con condanna di quest’ultima alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro e al pagamento, in favore di questa della posta risarcitoria pari a 12 mensilità.

Avverso tale decisione la società datrice di lavoro proponeva ricorso in Cassazione.

Per gli Ermellini, il gesto di gettare le confezioni vuote nel cestino dell’immondizia non poteva esprimere, nel caso in oggetto, un intento sottrattivo.

“In tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative”.

Nello stesso senso Cass. n. 2499/2017; in senso analogo v. Cass. n. 9616/2015, secondo cui in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del
dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito.

Non solo, per la Cassazione, è

“inammissibile, poiché si risolve nella non condivisione dell’apprezzamento del fatto – incentrato sul rilievo che gettare le confezioni nel cestino non poteva esprimere, nel caso specifico, avuto riguardo al complesso delle circostanze illustrate e valutate, un intento sottrattivo – compiuto dalla Corte territoriale (cfr., sul punto, Cass. n. 29404/2017: “Con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità”)”

Stando a quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società datrice di lavoro, non ritenendo che ricorresse l’impossessamento e disponendo la reintegra della lavoratrice nel suo posto di lavoro.

Dott.ssa Benedetta Cacace


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